19 marzo 2014

Cessione del credito IVA – Revocatoria fallimentare: mezzo normale o anormale di pagamento?

Segnalo l’interessante sentenza della Corte di Cassazione, Sez. I Civile, 11 novembre 2013, n. 25284 chiamata a decidere sulla revocatoria fallimentare ex art. 67, 1° comma, n.2 L.F. della cessione del credito di rimborso IVA dalla società (poi fallita) all’istituto bancario.
Il Tribunale di primo grado aveva rigettato la domanda promossa dalla Curatela e la Corte di Appello aveva confermato la sentenza di primo grado poiché – si legge nella decisione del Giudice di seconde cure – “… anche a non voler condividere l’assunto secondo cui la cessione del credito IVA non costituirebbe mezzo anormale di pagamento, la detta cessione pur non assimilabile al pagamento in danaro contante o titoli di credito, costituisce per prassi commerciale un pagamento per certezza di esazione paragonabile ai mezzi ordinari, tale cioè da escludere, proprio per tale sua qualità, l’indice presuntivo di consapevolezza da parte dell’accipiens dello stato di insolvenza del cedente.”.


Aggiungeva la Corte d’Appello che tale inscientia non era stata superata e provata da altri elementi da parte del Fallimento e che detta mancata conoscenza non fosse esclusa solo per il fatto che la cessionaria del credito fosse una banca e quindi un soggetto dotato di particolari strumenti di indagine.

Il Curatore Fallimentare proponeva ricorso per Cassazione, deducendo – con il primo motivo – la violazione dell’art. 67, primo comma, n. 2 L.F. e il conseguente vizio di motivazione.

In sintesi la Curatela lamentava come la sentenza impugnata avesse, in modo contraddittorio, affermato – da una parte – che la cessione del credito non era assimilabile al pagamento in denaro contante (o in titoli di credito) e – dall’altra – che la cessione di un credito IVA non consentiva, per la certezza di esazione paragonabile ai mezzi ordinari, la presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza in capo alla banca cessionaria.
Pertanto la Corte territoriale non aveva precisamente qualificato se la cessione fosse un mezzo normale di pagamento ovvero un mezzo anomalo di pagamento a mente del quale il fallimento si era avvalso della presunzione di cui all’art. 67, comma primo, L.F., non potendo addossare al fallimento stesso alcun onere probatorio.
Ebbene. Gli “Ermellinati” hanno accolto il ricorso, affermando che – proprio perché la cessione di credito non è un mezzo normale di pagamento – la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare l’operatività della presunzione relativa di conoscenza dello stato d’insolvenza.
Con una motivazione logico-giuridica ineccepibile, la Corte di Cassazione ha chiarito, infatti, che “… la cessione di credito, sostituendo (o aggiungendo} un debitore ad un altro, lascia il credito almeno temporaneamente insoddisfatto e si traduce, quindi, in un modo di estinzione dell’obbligazione solo potenziale, e comunque non di pronta soluzione, rispetto al quale risulta irrilevante l’eventuale conseguimento degli effetti sperati, trattandosi in ogni caso di un atto solutorio che non è considerato dalla legge né dalla prassi come un mezzo ordinario di pagamento (Cass. 10 giugno 2011, n. 12736 con specifico riferimento ad un credito IVA; Cass. 5 luglio 1997, n. 6047; Cass. 23 aprile 2002, n. 5917; Cass. 22 gennaio 2009, n. 1617; Cass. 5 marzo 2007, n. 5057).”.


La Corte di Cassazione cassava (con rinvio) la sentenza di secondo grado, con applicazione del principio di diritto secondo il quale: “… in tema di azione revocatoria fallimentare la cessione di credito in funzione solutoria, quando non sia prevista al momento del sorgere dell’obbligazione ovvero non sia attuata nell’ambito della disciplina della cessione dei crediti di impresa di cui alla legge n. 52/1991, integra sempre gli estremi di un mezzo anormale di pagamento,indipendentemente dalla certezza di esazione del credito ceduto; ne consegue la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza in capo al cessionario, che può vincere tale presunzione non con una prova diretta dell’insussistenza dello stato di insolvenza, che rappresenta solo da un punto di vista logico un presupposto dell’azione, ma con la prova di circostanze tali da fare ritenere ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza che l’imprenditore si trovava in una situazione di normale esercizio dell’impresa.” (N.d.R. enfasi aggiunta).

La questione, ora, è rimessa alla Corte d’Appello di Roma la quale dovrà valutare – secondo la corretta ripartizione dell’onere della prova – se il convenuto possa vincere la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza (sul tema cfr. Cass. Civ. n. 7231 del 1996, n. 10432 del 2005 e n.17998 del 2009).