Segnalo l’interessante sentenza della Corte di
Cassazione, Sez. I Civile, 11 novembre 2013, n. 25284 chiamata a
decidere sulla revocatoria fallimentare ex art. 67, 1° comma, n.2
L.F. della cessione del credito di rimborso IVA dalla società (poi
fallita) all’istituto bancario.
Il Tribunale di primo grado aveva rigettato la
domanda promossa dalla Curatela e la Corte di Appello aveva confermato
la sentenza di primo grado poiché – si legge nella decisione del Giudice
di seconde cure – “… anche
a non voler condividere l’assunto secondo cui la cessione del credito
IVA non costituirebbe mezzo anormale di pagamento, la detta cessione pur
non assimilabile al pagamento in danaro contante o titoli di credito,
costituisce per prassi commerciale un pagamento per certezza di esazione
paragonabile ai mezzi ordinari, tale cioè da escludere, proprio per
tale sua qualità, l’indice presuntivo di consapevolezza da parte dell’accipiens dello stato di insolvenza del cedente.”.
Aggiungeva la Corte d’Appello che tale inscientia non
era stata superata e provata da altri elementi da parte del Fallimento e
che detta mancata conoscenza non fosse esclusa solo per il fatto che la
cessionaria del credito fosse una banca e quindi un soggetto dotato di
particolari strumenti di indagine.
Il Curatore Fallimentare proponeva ricorso per
Cassazione, deducendo – con il primo motivo – la violazione dell’art.
67, primo comma, n. 2 L.F. e il conseguente vizio di motivazione.
In sintesi la Curatela lamentava come la sentenza impugnata avesse, in modo contraddittorio, affermato – da una parte – che la cessione del credito non era assimilabile al pagamento in denaro contante (o in titoli di credito) e – dall’altra – che la cessione di un credito IVA non consentiva, per la certezza di esazione paragonabile ai mezzi ordinari, la presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza in capo alla banca cessionaria.
Pertanto la Corte territoriale non aveva precisamente
qualificato se la cessione fosse un mezzo normale di pagamento ovvero
un mezzo anomalo di pagamento a mente del quale il fallimento si era
avvalso della presunzione di cui all’art. 67, comma primo, L.F., non
potendo addossare al fallimento stesso alcun onere probatorio.
Ebbene. Gli “Ermellinati” hanno accolto il ricorso,
affermando che – proprio perché la cessione di credito non è un mezzo
normale di pagamento – la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare
l’operatività della presunzione relativa di conoscenza dello stato
d’insolvenza.
Con una motivazione logico-giuridica ineccepibile, la Corte di Cassazione ha chiarito, infatti, che “… la
cessione di credito, sostituendo (o aggiungendo} un debitore ad un
altro, lascia il credito almeno temporaneamente insoddisfatto e si
traduce, quindi, in un modo di estinzione dell’obbligazione solo
potenziale, e comunque non di pronta soluzione, rispetto al quale
risulta irrilevante l’eventuale conseguimento degli effetti sperati,
trattandosi in ogni caso di un atto solutorio che non è considerato
dalla legge né dalla prassi come un mezzo ordinario di pagamento (Cass.
10 giugno 2011, n. 12736 con specifico riferimento ad un credito IVA;
Cass. 5 luglio 1997, n. 6047; Cass. 23 aprile 2002, n. 5917; Cass. 22
gennaio 2009, n. 1617; Cass. 5 marzo 2007, n. 5057).”.
La Corte di Cassazione cassava (con rinvio) la
sentenza di secondo grado, con applicazione del principio di diritto
secondo il quale: “… in
tema di azione revocatoria fallimentare la cessione di credito in
funzione solutoria, quando non sia prevista al momento del sorgere
dell’obbligazione ovvero non sia attuata nell’ambito della disciplina
della cessione dei crediti di impresa di cui alla legge n. 52/1991, integra sempre gli estremi di un mezzo anormale di pagamento,indipendentemente dalla certezza di esazione del credito ceduto;
ne consegue la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza
in capo al cessionario, che può vincere tale presunzione non con una
prova diretta dell’insussistenza dello stato di insolvenza, che
rappresenta solo da un punto di vista logico un presupposto dell’azione,
ma con la prova di circostanze tali da fare ritenere ad una persona di
ordinaria prudenza ed avvedutezza che l’imprenditore si trovava in una
situazione di normale esercizio dell’impresa.” (N.d.R. enfasi aggiunta).
La questione, ora, è rimessa alla Corte d’Appello di
Roma la quale dovrà valutare – secondo la corretta ripartizione
dell’onere della prova – se il convenuto possa vincere la presunzione
della conoscenza dello stato di insolvenza (sul tema cfr. Cass. Civ. n.
7231 del 1996, n. 10432 del 2005 e n.17998 del 2009).